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Esterovestizione e libertà di stabilimento. Una interessante sentenza della Corte di cassazione.

La sentenza n. 3386/2024 della Corte di cassazione è interessante sotto molti profili: i giudici di legittimità hanno chiarito come la rettifica della residenza di una società, sulla base dei criteri di collegamento di cui all’art. 73, c. 3, TUIR, dispieghi i suoi effetti anche ai fini delle imposte indirette, nella fattispecie l’imposta di registro, affermando, non in via secondaria, il coordinamento fra esterovestizione e libertà di stabilimento.

Il caso è rappresentato da un avviso di liquidazione dell’imposta di registro, notificato ad una società fiscalmente residente nel Regno Unito. La società, partecipata da una controllante britannica con unico socio italiano, era stata destinataria, ad opera di quest’ultimo, del conferimento di un immobile, sito in Italia. L’atto di conferimento era stato assoggettato ad imposta di registro in misura fissa, sulla scorta di quanto previsto dalla nota IV dell’art. 4, Tariffa Parte I allegata al D.P.R. 131/1986 (“TUR”): questa norma prevede, ai fini dell’imposta di registro, in deroga alla tassazione proporzionale del conferimento immobiliare (all’epoca dei fatti, con aliquota al 7% ed oggi al 9%), l’applicazione dell’imposta in misura fissa, “se la società destinataria del conferimento ha la sede legale o amministrativa in altro Stato membro dell’Unione Europea”.

Con l’atto impositivo l’Agenzia delle entrate non riconosceva la predetta agevolazione ritenendo applicabile l’imposta proporzionale. Infatti, l’Ufficio riteneva che la società operasse solo apparentemente all’estero, avendo in Italia il centro principale dei suoi interessi. La contestazione era basata sulla presunzione legale di esterovestizione di cui all’art. 73, c. 5-bis, del D.P.R. 917/1986 (“TUIR”).

L’Agenzia delle entrate, dopo l’esito negativo del secondo grado, ricorreva per cassazione, denunciando l’errore in cui era incorsa la CTR, poiché non aveva valutato compiutamente i gli elementi di prova da lei addotti.

Infatti, la società non aveva uffici in Inghilterra, né dipendenti e in bilancio non aveva indicato alcun costo di gestione amministrativa;  non dava evidenza in bilancio dei propri immobili ubicati in Italia, tanto meno dei corrispettivi ricavi da locazione; disponeva (almeno da quanto emergeva dai bilanci) solo di una segreteria in Regno Unito, senza alcuna prova della sua esistenza effettiva; disponeva di un amministratore unico residente in Italia, tra l’altro il conferente e  quest’ultimo rappresentava, indirettamente, anche l’unico socio.

La Corte, investita della questione, ha sottolineato che l’art. 73, c. 5-bis TUIR, prevede una presunzione legale di attrazione della residenza in Italia, che si attiva al ricorrere di due presupposti:  la detenzione di una partecipazione di controllo in una società residente in Italia; essere assoggettata, a sua volta, al controllo di soggetti residenti in Italia o l’essere amministrata da un consiglio di amministrazione composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia.

Dato che la contribuente non deteneva alcuna partecipazione in enti residenti in Italia, mancava il primo fondamentale presupposto per l’operatività della presunzione legale e dunque la censura mossa dall’Agenzia delle entrate oltre che priva di pregio, non poteva essere accolta nel “petitum”.

La Corte sembra essere stata particolarmente solerte nell’operare una rimodulazione della contestazione dell’Agenzia, quantomeno discutibile, in un giudizio di legittimità.

Cosicché la Corte Suprema ha individuato che la residenza italiana scaturiva dalla ordinaria operatività dei criteri di collegamento con il nostro Paese, dettati dal comma 3 dell’art. 73. In particolare, gli elementi indiziari portati dall’Ufficio provavano la sussistenza della sede dell’amministrazione in Italia della contribuente. In particolare, sul piano processuale, la Corte ha inteso che gli elementi indiziari presenti erano una prova presuntiva di esterovestizione, con la conseguente traslazione sul contribuente dell’onere della prova contraria. La società, d’altra parte, non avendo indicato alcun fatto idoneo a provare l’effettiva residenza all’estero, non aveva assolto a siffatto onere.

Dato che la vertenza era in tema di imposta di registro, la Corte, richiamando la che Direttiva 2008/7/CE, avente ad oggetto le imposte indirette sulla raccolta dei capitali, in particolare l’art. 10, che: “individua lo Stato al quale spetta il potere impositivo unicamente con quello ove è situata la sede della ‘direzione effettiva’ della società al momento in cui è effettuato il conferimento” (laddove, come più volte affermato dalla Suprema Corte, la “sede dell’amministrazioneva considerata coincidente con la sede effettiva della società”), ha chiarito come l’attrazione della residenza in Italia della società, per effetto dell’art. 73 TUIR ai fini delle imposte dirette, può essere applicato anche ai fini dell’imposta di registro ed in genere alle imposte indirette.

In effetti, la direttiva europea in tema di imposte indirette, ponendo a base della propria disciplina il criterio della sede di direzione effettiva, crea implicitamente un collegamento con i presupposti di operatività dello stesso art. 73, c. 3, TUIR.

Pertanto, la Corte ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate, confermando la pretesa impositiva.

Si evidenzia l’importanza delle considerazioni, contenute nella sentenza, sul coordinamento tra la disciplina dell’esterovestizione e la libertà di stabilimento, di cui agli artt. 49 ss. del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

I giudici di legittimità opportunamente hanno richiamato la c.d. “sentenza Cadbury Schweppes”, “secondo la quale la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro dell’Unione Europea per fruire di una legislazione fiscale più vantaggiosa non costituisce di per sé abuso della libertà di stabilimento, fermo restando che una misura nazionale restrittiva di tale libertà è ammessa se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad escludere l’applicabilità della normativa dello Stato membro interessato; il che accade quando alla formale localizzazione della sede della società all’estero non corrisponde l’esercizio quivi di un’attività economica reale”.

Richiamando i predetti principi, la Corte ha anche affermato che: “la disciplina interna, tesa ad attribuire prevalenza al dato fattuale dello svolgimento dell’attività direttiva presso un territorio diverso da quello in cui la società ha la sua sede legale, non si pone in conflitto con la libertà di stabilimento”.

In conclusione, la “Cadbury Schweppes” e i casi nazionali “Dolce e Gabbana” evidenziano che la rettifica della residenza di un ente stabilito nel territorio dell’Unione Europea, non può avvenire solo sulla base dei criteri di collegamento ex art. 73, ma trova nella libertà di stabilimento un limite invalicabile.

 

 

 

Articolo del Dott. Michele Gentile del 4 marzo 2024